giovedì 7 agosto 2025

Essere umani

 Un intervento molto interessante di uno dei più grandi genetisti al mondo. E' decisamente lungo ma va letto con attenzione...

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Tanti modi di essere umani senza credere alle favole

Oggi no: oggi c’è una bella differenza fra noi e gli scimpanzé, ma sette milioni di anni fa eravamo la stessa cosa, avevamo gli stessi antenati: lo si capisce dai nostri Dna, così simili.

E allora, quand’è che siamo diventati umani? Si potrebbe rispondere: appunto sette milioni di anni fa, quando alcuni di quegli antenati sono scesi dagli alberi, iniziando un lungo cammino. Letteralmente: chi si è avventurato negli invitanti, pericolosi spazi aperti ha imparato a camminare, chi è rimasto al sicuro nella foresta, no; noi discendiamo dai primi, gli scimpanzé dai secondi.

Oppure potremmo dire che è umano chi ha un cervello come il nostro, e così fissare la svolta al momento in cui troviamo i primi crani uguali ai nostri, cioè 200mila anni fa. O invece, potrebbero essere umani tutti quelli che, da due milioni di anni e passa, costruiscono attrezzi per mezzo di altri attrezzi, cosa che nessuno scimpanzé è mai riuscito a fare.

Oppure ancora, stabiliamo che sia umano solo chi sappia parlare, ma allora, come si dice in Polesine, peso el tacòn del sbrego, peggio la toppa del buco, perché la facoltà del linguaggio non lascia fossili e chissà quando si è sviluppata.

Questione spinosa, insomma. Se ne era accorto Charles Darwin, secondo cui chiedersi da quando siamo umani è «poco interessante», perché la risposta dipende solo dalla nostra, soggettiva, definizione di umano.

Giusto. Però le convinzioni soggettive non sono da buttar via. Anche loro si sono evolute nel corso del tempo, via via che nuovi fossili, nuove scoperte della genetica mettevano in crisi certe idee troppo semplici.

Oggi sappiamo che sulla Terra è passata parecchia gente che ci assomigliava e adesso non c’è più. In Europa e in Asia occidentale c’era il famoso uomo di Neandertal; nel sudest asiatico è vissuta a lungo una specie che chiamiamo Homo erectus, probabilmente scomparsa senza entrare in contatto con noi.

Negli ultimi anni abbiamo trovato in Asia i resti di altre tre specie estinte: nell’isola indonesiana di Flores (Homo floresiensis), nelle Filippine (Homo luzonensis), e in Siberia, nella grotta di Denisova. Che aspetto avessero i denisovani non lo sappiamo: di loro ci restano solo minuscoli frammenti di ossa; ma c’era Dna, in quei frammenti, e non è né il nostro né quello dei Neandertal.

Tante specie umane, dunque, e forse l’elenco non è completo; e non possiamo escludere che si siano mescolate fra loro, queste specie. Un momento, però: non ci avevano insegnato a scuola che specie diverse, se si incrociano, generano figli sterili, come i cavalli e gli asini?

E allora, se si sono mescolati (il termine tecnico è ibridati) non dovremmo dire che apparteniamo tutti a un’unica specie umana?

Tanto per cambiare, la risposta ce la dà Darwin. Ci servono nomi per definire i viventi, scrive; ma non è detto che se chiamiamo «asino» l’asino, o «cavallo» il cavallo, poi i due equini si sentano obbligati a rispettare questa nostra classificazione.

Specie simili discendono, con modifiche, da antenati comuni, ma ci vogliono decine o centinaia di millenni. Durante tutto questo tempo, se scatta la fatale scintilla, membri dei due gruppi possono ancora generare figli fertili.

Visto che distinguiamo bene gli scheletri di Neandertal da quelli di sapiens, ha senso chiamarli con nomi diversi. Ma la possibilità che queste specie si siano ibridate esiste, e non viola nessuna legge naturale.

Attenzione, però: è una possibilità. Se sia avvenuto davvero, non è così semplice dire. Abbiamo un dato: il Dna dei neandertaliani assomiglia un po’ di più a quello degli europei e degli asiatici che a quello degli africani.

Può darsi che i primi sapiens usciti dall’Africa abbiano incontrato i neandertaliani, da qualche parte nel Vicino Oriente, e si siano, appunto, ibridati con loro. È stato un cocktail sbilanciato, tanti sapiens e pochi Neandertal, ma è bastato a far arrivare un po’ di Dna neandertaliano fino ad oggi, anche in posti dove Neandertal non si è mai sognato di andare, in estremo oriente e addirittura in Nuova Guinea: c’è arrivato sulle gambe dei sapiens che sono migrati fin là.

Questa però non è la sola spiegazione possibile. Per capirsi, i nostri Dna sono più simili a quelli dei gorilla che a quelli dei canguri, e non perché abbiamo fatto sesso con i gorilla. Semplicemente, l’antenato comune a noi e ai gorilla è più vicino nel tempo di quello comune a noi e ai canguri.

Allo stesso modo, è possibile che i Neandertal siano più simili agli eurasiatici che agli africani perché hanno antenati comuni più recenti con i primi che con i secondi. Finché non ne sapremo di più, meglio lasciare aperte entrambe le possibilità.

Ma allora, come facciamo a decidere chi faccia parte della famiglia umana? Gira gira, si ritorna alla facoltà del linguaggio. L’abbiamo già detto: non ci troveremo date precise.

D’altra parte, il linguaggio è così importante che qualcuno propone di chiamarci the storytelling animal, l’animale contastorie. Un grande evoluzionista, Larry Slobodkin, si è dichiarato pronto ad accogliere nella famiglia umana qualunque forma vivente che si diverta a raccontare e ascoltare storie.

È un allenamento alla vita, è come esercitarsi su un simulatore di volo prima di pilotare un Airbus. Pensare all’umanità come la comunità contastorie ha anche il pregio di segnalarci un rischio a cui siamo esposti.

«Davanti a una storia, una storia qualsiasi, io resto incantato», scrive Philip Roth. Le storie che ci piacciono non devono per forza essere vere, devono affascinarci. Se una bufala colpisce qualche angolo nascosto della nostra psiche, può diffondersi e diventare, come si dice, virale.

Scie chimiche, sostituzioni etniche, microchip iniettati nel circolo sanguigno con la scusa dei vaccini… Il problema è annoso: i miti della razza, della superiorità dei maschi sulle femmine, hanno prodotto noti disastri su scala planetaria.

Insomma, la caratteristica più umana dell’umanità, la nostra fame di storie, ci rende anche manipolabili, e minaccia la nostra capacità di comprendere il mondo in cui viviamo. Circolano verità alternative: se qualcosa non ci piace, possiamo convincerci che non è vera, e provare a convincerne gli altri con una storia ben congegnata.

È giusto che di questi fenomeni parlino sociologi e psicologi. Io posso solo dire che la scienza, come il diritto, è un tentativo di ridurre i conflitti per mezzo della razionalità: quella razionalità che, nella nostra società iperconnessa, le fake news possono indebolire o distruggere; e doverla poi ricostruire sarebbe molto difficile.

Se ai dati scientifici anteponiamo chiacchiere raccolte qua e là perché confermano quanto pensiamo di sapere già, se rinunciamo alla possibilità di confrontarci secondo ragione, resta solo lo scontro, dove vincerà il più brutale.

Siamo animali contastorie, avidi consumatori di storie; però siamo anche cittadini, e non avremo scusanti se non riconosciamo i pericoli e non ci schieriamo dalla parte giusta.


Guido Barbujani, laureato con lode in Scienze Biologiche nel 1978 presso l'Università di Ferrara, ha lavorato alla Stony Brook University (Stato di New York), alle Università di Padova Bologna, e dal 1996 è professore ordinario di genetica all'Università di Ferrara, già presidente dell'Associazione Genetica Italiana, membro dell'"ALFRED (Allele FREquency Database) Advisory Board", nominato dalla National Science Foundation (USA), è faculty member della "European School of Medical Genetics", e associate editor delle riviste "BMC Genetics" e "Human Heredity", https://docente.unife.it/guido.barbujani/curriculum.

https://ilmanifesto.it/tanti-modi-di-essere-umani-senza-credere-alle-favole Edizione del 4/82025


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