Un intervento molto interessante di uno dei più grandi genetisti al mondo. E' decisamente lungo ma va letto con attenzione...
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Tanti
modi di essere umani senza credere alle favole
Oggi
no: oggi c’è una bella differenza fra noi e gli scimpanzé, ma
sette
milioni di anni fa
eravamo
la stessa cosa,
avevamo
gli stessi antenati:
lo si capisce dai nostri Dna, così simili.
E
allora, quand’è
che siamo diventati umani?
Si potrebbe rispondere: appunto sette
milioni di anni fa, quando alcuni di quegli antenati sono scesi dagli
alberi, iniziando un lungo cammino. Letteralmente: chi si è
avventurato negli invitanti, pericolosi spazi
aperti ha imparato a camminare, chi è rimasto al sicuro nella
foresta, no; noi discendiamo dai primi, gli scimpanzé dai secondi.
Oppure
potremmo
dire che è umano chi ha un cervello come il nostro,
e così fissare la svolta al momento in cui troviamo i primi crani
uguali ai nostri, cioè 200mila
anni fa.
O invece, potrebbero
essere umani tutti quelli che, da due milioni di anni e passa,
costruiscono attrezzi per mezzo di altri attrezzi,
cosa che nessuno scimpanzé è mai riuscito a fare.
Oppure
ancora, stabiliamo
che sia umano solo chi sappia parlare,
ma allora, come si dice in Polesine, peso
el tacòn del sbrego,
peggio la toppa del buco, perché la
facoltà del linguaggio non lascia fossili e chissà quando si è
sviluppata.
Questione
spinosa, insomma. Se ne era accorto Charles Darwin, secondo cui
chiedersi da quando siamo umani è «poco interessante», perché la
risposta dipende solo dalla nostra, soggettiva,
definizione di umano.
Giusto.
Però le convinzioni soggettive non sono da buttar via. Anche loro si
sono evolute nel corso del tempo, via via che nuovi fossili, nuove
scoperte della genetica mettevano in crisi certe idee troppo
semplici.
Oggi
sappiamo che sulla
Terra è passata parecchia gente che ci assomigliava e adesso non c’è
più.
In Europa e in Asia occidentale c’era il famoso uomo di Neandertal;
nel sudest asiatico è vissuta a lungo una specie che chiamiamo Homo
erectus,
probabilmente scomparsa senza entrare in contatto con noi.
Negli
ultimi anni abbiamo trovato in Asia i resti di altre tre specie
estinte: nell’isola indonesiana di Flores (Homo
floresiensis),
nelle Filippine (Homo
luzonensis),
e in Siberia, nella grotta di Denisova. Che aspetto avessero i
denisovani non lo sappiamo: di loro ci restano solo minuscoli
frammenti di ossa; ma c’era Dna, in quei frammenti, e non è né il
nostro né quello dei Neandertal.
Tante
specie umane, dunque,
e forse l’elenco non è completo;
e non possiamo escludere che si
siano mescolate fra loro, queste specie.
Un momento, però: non ci avevano insegnato a scuola che specie
diverse, se si incrociano, generano figli sterili, come i cavalli e
gli asini?
E
allora, se si sono mescolati
(il termine tecnico è ibridati)
non dovremmo dire che apparteniamo tutti a un’unica specie umana?
Tanto
per cambiare, la risposta ce la dà Darwin. Ci servono nomi per
definire i viventi, scrive; ma non è detto che se chiamiamo «asino»
l’asino, o «cavallo» il cavallo, poi i due equini si sentano
obbligati a rispettare questa nostra classificazione.
Specie
simili discendono, con modifiche, da antenati comuni, ma ci vogliono
decine o centinaia di millenni.
Durante tutto questo tempo, se scatta la fatale scintilla, membri
dei due gruppi possono ancora generare figli fertili.
Visto
che distinguiamo bene gli scheletri di Neandertal da quelli di
sapiens, ha senso chiamarli con nomi diversi.
Ma la possibilità che queste specie si siano ibridate esiste, e non
viola nessuna legge naturale.
Attenzione,
però:
è una possibilità.
Se sia avvenuto davvero, non è così semplice dire. Abbiamo un dato:
il Dna dei neandertaliani assomiglia un po’ di più a quello degli
europei e degli asiatici che a quello degli africani.
Può
darsi che i primi sapiens usciti dall’Africa abbiano incontrato i
neandertaliani, da qualche parte nel Vicino Oriente, e si siano,
appunto, ibridati con loro. È stato un cocktail sbilanciato, tanti
sapiens e pochi Neandertal, ma è bastato a far arrivare un po’ di
Dna neandertaliano fino ad oggi, anche in posti dove Neandertal non
si è mai sognato di andare, in estremo oriente e addirittura in
Nuova Guinea: c’è arrivato sulle gambe dei sapiens che sono
migrati fin là.
Questa
però non è la sola spiegazione possibile. Per capirsi, i
nostri Dna sono più simili a quelli dei gorilla che a quelli dei
canguri, e non perché abbiamo fatto sesso con i gorilla.
Semplicemente, l’antenato comune a noi e ai gorilla è più vicino
nel tempo di quello comune a noi e ai canguri.
Allo
stesso modo, è possibile che i Neandertal siano più simili agli
eurasiatici che agli africani perché hanno antenati comuni più
recenti con i primi che con i secondi. Finché non ne sapremo di più,
meglio
lasciare aperte entrambe le possibilità.
Ma
allora, come facciamo a decidere chi faccia parte della famiglia
umana? Gira gira, si ritorna alla facoltà del linguaggio. L’abbiamo
già detto: non ci troveremo date precise.
D’altra
parte, il
linguaggio è così importante che qualcuno propone di chiamarci the
storytelling animal,
l’animale contastorie.
Un grande evoluzionista, Larry Slobodkin, si è dichiarato pronto ad
accogliere nella famiglia umana qualunque forma vivente che si
diverta a raccontare e ascoltare storie.
È
un allenamento alla vita, è come esercitarsi su un simulatore di
volo prima di pilotare un Airbus.
Pensare all’umanità come la comunità contastorie ha anche il
pregio di segnalarci un
rischio a cui siamo esposti.
«Davanti
a una storia, una storia qualsiasi, io resto incantato», scrive
Philip Roth. Le
storie che ci piacciono non devono per forza essere vere, devono
affascinarci.
Se una bufala colpisce qualche angolo nascosto della nostra psiche,
può diffondersi e diventare, come si dice, virale.
Scie
chimiche, sostituzioni etniche, microchip iniettati nel circolo
sanguigno con la scusa dei vaccini… Il problema è annoso: i miti
della razza, della superiorità dei maschi sulle femmine, hanno
prodotto noti disastri su scala planetaria.
Insomma,
la
caratteristica più umana dell’umanità, la nostra fame di storie,
ci rende anche
manipolabili, e minaccia la nostra capacità di comprendere il mondo
in cui viviamo.
Circolano
verità alternative:
se
qualcosa non ci piace, possiamo convincerci che non è vera, e
provare a convincerne gli altri con una storia ben congegnata.
È
giusto che di questi fenomeni parlino sociologi e psicologi. Io posso
solo dire che la
scienza,
come il diritto, è
un tentativo di ridurre i conflitti per mezzo della razionalità:
quella razionalità che, nella nostra società iperconnessa, le fake
news possono indebolire o distruggere; e doverla poi ricostruire
sarebbe molto difficile.
Se
ai dati scientifici anteponiamo chiacchiere
raccolte
qua e là perché
confermano
quanto pensiamo di sapere già,
se rinunciamo alla possibilità di confrontarci secondo ragione,
resta solo lo scontro, dove vincerà il più brutale.
Siamo
animali contastorie, avidi consumatori di storie; però siamo anche
cittadini, e non avremo scusanti se non riconosciamo i pericoli e non
ci schieriamo dalla parte giusta.
Guido
Barbujani,
laureato
con lode in Scienze Biologiche nel 1978 presso l'Università
di Ferrara,
ha
lavorato alla Stony
Brook University (Stato
di New York),
alle Università
di Padova e Bologna,
e dal 1996 è professore ordinario di genetica all'Università
di Ferrara,
già presidente
dell'Associazione Genetica Italiana,
membro
dell'"ALFRED (Allele
FREquency Database)
Advisory Board", nominato dalla National
Science Foundation (USA),
è faculty
member della
"European School of Medical Genetics", e associate
editor delle
riviste "BMC Genetics" e "Human Heredity",
https://docente.unife.it/guido.barbujani/curriculum.
https://ilmanifesto.it/tanti-modi-di-essere-umani-senza-credere-alle-favole
Edizione
del 4/82025